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#FrancorossoStories Giordania

Giordania

Wadi Musa dorme ancora, mentre i muezzin della città cantano l’adhan dell’alba. Ogni voce si spande tra le case insieme alla luce rosata, a distanza di una frazione di secondo l’una dall’altra.

Scendo la strada tortuosa che porta all’ingresso di Petra, mentre l’eco mi ripete che Allah è grande e Mohammed è il suo profeta. Non c’è nessun altro in coda, i negozietti sono ancora chiusi e sono il primo biglietto della giornata. Scivolo rapidamente giù dalla strada che man mano si stringe, mentre qui e lì sbucano le prime tombe scolpite in sfumature lucide e delicate come la seta.

Compare l’acquedotto: un capolavoro dell’ingegneria nabatea che scorre nel siq fino alla città più in basso. Piano piano, la gola si restringe fino a creare una porta socchiusa naturale. Alzo lo sguardo e lo vedo: Al Khazneh, il Tesoro, in tutto il suo splendore. Eleganza classica da mozzare il fiato sui primi cinguettii del mattino. Un minuto dopo, il primissimo raggio di sole colpisce un timpano: sembra che la pietra rosea possa incendiarsi da un momento all’altro. La macchia di fuoco si espande sempre più rapidamente, abbracciando tutte le superfici morbide del monumento più fotografato di tutta la Giordania.

Ma Petra non finisce con il Tesoro. Le tombe nabatee si susseguono una dopo l’altra finché il canyon non si apre nella città che i romani conquistarono a fatica e ampliarono prima che, nei secoli successivi, Petra cadesse gradualmente in decadenza. È a Jerash, però, sulla via della Siria, che i romani hanno dato il meglio dell’ingegneria: un foro colonnato monumentale, il possente arco di Adriano, teatri perfettamente conservati, un ippodromo, i ciclopici capitelli dei templi…

Un luogo fatto dalle sue connessioni, città di transito e di passaggio dove, sul lastricato consumato da duemila anni di sandali, zoccoli, carri, sembra ancora di sentire il cigolare delle ruote di legno, il nitrire dei cavalli, le voci di mercanti venuti da lontano a contrattare in greco o in latino, nabateo, ebraico, aramaico…

Ma se Jerash si staglia contro il cielo a rivendicare i traguardi architettonici dell’uomo, Petra è una città che esce dalla roccia, perfettamente integrata nel paesaggio. Da lontano quasi non si vede, tutta raccolta nelle gole com’è. Quella sua pietra screziata chiama sud: montagne, dune, rocce scolpite dal vento fino alle rive del Mar Rosso. La accarezzo e mi si sbriciola tra le mani, rosa come la sabbia del Wadi Rum al mattino. Chiudo gli occhi e l’aria frizzante del mattino mi riporta lì, fuori dalla tenda, il tè nero bollente tra le dita, attenta a non scottarmi.

Le prime luci spazzano via l’umidità della notte nel deserto, la stellata sbiadisce a poco a poco, il vento con un soffio leggero sposta i granelli di sabbia giù dalla duna. È tutto collegato da un filo sottile, che corre tra le gole e i passi di montagne aride, lungo il Giordano, tra le colonne dei templi e le facciate monumentali. Nel silenzio e nel fresco dell’alba, a tratti mi sembra di vederlo luccicare.

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